Ecologia, Ambiente, Ambientalismo

Non solo contrasto climatico. Salvare la biodiversità è dovere politico. Intervista ad Alessandro Chiarucci (2a parte)

Non solo contrasto al cambiamento climatico. Salvare la biodiversità è dovere etico e politico.
Intervista ad Alessandro Chiarucci (2a parte)
di Stefano Mari

Una cosa che ho apprezzato tra le tante è la critica alla gestione italiana dei parchi, perché da un certo punto di vista lei riscontra che in Italia c’è una grande superficie protetta ma contesta la natura di questa protezione e la gestione dei parchi.
Credo che in questo paese ci sia una grandissima quantità di natura, devo dire anche ben protetta tutto sommato. Il problema che vedo principale è quello della frammentazione di chi fa le politiche e la gestione della conservazione. I parchi in Italia non hanno una gestione unitaria, un National Park Service, come esiste in tanti paesi. Abbiamo parchi nazionali che dipendono dal Ministero dell’ambiente, abbiamo parchi regionali che dipendono da 21 amministrazioni regionali e provincie autonome, che spesso non comunicano tra loro, abbiamo altri sistemi ancora e quindi una grave frammentazione delle competenze che non aiuta il sistema della pianificazione della conservazione. Ho citato nel libro due esempi. Il Delta del Po, il nostro fiume più grande, è protetto non un grande parco ma da due parchi regionali, uno per ciascuna delle due regioni che si affacciano nella parte terminale del fiume. Per fortuna ci sono anche politiche e strumenti di comunicazione tra le due regioni, Emilia-Romagna e Veneto, ma credo che avrebbe avuto più senso fare un singolo parco nazionale che travalicasse i confini amministrativi delle regioni. Oggi si potrebbe proporlo? Ma assolutamente sì. Credo che avere un parco nazionale con un unico ente di gestione, quindi una pianificazione che non sia diversa da un lato rispetto dell’altro del grande fiume ma che sia unitaria, avrebbe una maggior capacità di visione strategica. Altro caso, decisamente più triste, è quello del Parco Nazionale dello Stelvio, che nasce come uno dei primi parchi nazionali. Poi succede che in un momento storico c’è una spinta verso la regionalizzazione che ha comportato la divisione della gestione in tre enti diversi: Lombardia e Province Autonome di Trento e Bolzano. Siamo arrivati ad avere, non solo lo spacchettamento della gestione di un grande parco nazionale in tre enti diversi, ma addirittura tre siti web, con lo spaesamento che ciò crea nei turisti che intendano visitarlo.
Negli Stati Uniti il parco di Yellowstone sta in tre stati diversi, ma ha un unico ente gestore, un unico sito web, un’unica rete sentieristica, un unico corpo di Ranger ed è gestito come un unico parco. La frammentazione che si adotta da noi non è una cosa positiva, e dobbiamo dirlo.

Questa considerazione introduce un tema assolutamente politico sull’autonomia differenziata.
L’autonomia differenziata delle politiche su scala regionale porta per certi versi una maggior vicinanza ai cittadini del territorio ma per tantissimi versi ha molti limiti non solo nel campo della tutela ambientale ma anche in quello della sanità. Io sono toscano, vivo in Toscana e lavoro a Bologna. Mezz’ora di treno separa due sistemi ma le cartelle sanitarie che contengono i miei dati medici non comunicano tra loro. Ognuno gestisce il suo piccolo regno. La cosa che mi sembra più grave è che la regionalizzazione rende più debole e più fragile il nostro paese nel suo ruolo geopolitico. Un paese in cui si dà troppo spazio al localismo, al regionalismo, perde di visibilità in un contesto politico sovranazionale che si imponga sulle politiche nazionali. L’Italia può avere un ruolo nel tavolo dei grandi ma l’Emilia-Romagna o la Sicilia non lo avranno. In questi ultimi decenni ci siamo molto focalizzati in questo paese sulle differenze tra i singoli territori e abbiamo perso il nostro ruolo che fino a 30-40 anni fa era molto rilevante sulla geopolitica internazionale. Tornando ai parchi e alla biodiversità, è necessario avere una visione nazionale e usarla in chiave europea, mentre tante visioni regionali o subregionali o provinciali sono penalizzanti e rendono difficile anche solo capire i risultati che stiamo ottenendo.

Apprezzo molto il fatto che ci sia una regia sovranazionale. Nel libro ha citato Von Der Leyen con una frase abbastanza positiva, apparentemente. La mia sensazione è che le politiche europee destinate al riarmo taglino in maniera piuttosto seria le politiche europee destinate alla lotta al cambiamento climatico e alla tutela della biodiversità. Uno può fare un discorso molto bello ma se questo discorso non viene accompagnato da uno stanziamento economico importante è sostanzialmente inutile e rimane sul piano teorico.
Von Der Leyen in quel momento presentava quella che è la strategia europea per la biodiversità 2030, che è stata una colonna portante del pensiero politico europeo su questo tema, dove si sancisce che il 30 % del territorio deve essere protetto e un terzo di questo, ossia il 10 %, strettamente protetto. Ciò corrisponde al mio stesso concetto di tutela. L’ho citata perché in quel momento ha rappresentato la politica della nostra comunità europea al di là di quello che può essere il suo stesso pensiero, ed è una posizione che pone l’Europa all’avanguardia. Poi è vero che le politiche di guerra e di riarmo probabilmente hanno sottratto tutta l’attenzione e soprattutto le necessarie risorse. Gli Stati ancora hanno un ruolo importante come entità politiche. Lo vediamo nei conflitti che in questi giorni ci sono fra i vari stati membri dell’unione, con visioni diverse anche sul riarmo. Tornando ai parchi, con la nostra ricerca abbiamo cominciato a misurare tutte le aree classificate come protette cercando di individuare le riserve integrali e le zone A dei parchi, ovvero le aree dove l’obiettivo principale è proteggere il funzionamento naturale dell’ecosistema. Aree quindi sostanzialmente non gestite, accessibili, visitabili, percorribili, ma non gestite in modo attivo. Nel nostro paese molti parchi nazionali hanno boschi gestiti oppure sono addirittura agricoli, come quello delle bellissime Cinque Terre. Li abbiamo classificati come parchi nazionali ma non corrispondono esattamente alla definizione dei parchi nazionali definita a livello internazionale. Sarebbe anche necessaria una revisione di questi concetti, una semplificazione, un’omogeneizzazione tra Stati, e nel nostro paese tra regioni, perché vengono adottati criteri di zonizzazione molto diversi e quindi è difficilissimo comprendere a fondo il quadro.

Un tema estremamente interessante riguarda l’individuazione delle zone da portare a riserva integrale.
La superficie è ovviamente il fattore importantissimo, quindi arrivare a questo 10% serve come target politico perché dare dei numeri significa anche poter misurare la vicinanza dal raggiungimento dell’obiettivo. Siamo abbastanza lontani. Nel lavoro che abbiamo fatto su scala europea abbiamo preso tutti i dati da un database globale delle aree protette, ma i dati sono quelli che gli stati mandano e in Italia la situazione è composita, per la presenza delle regioni. In quel database abbiamo usato le aree Ia, Ib e II che sono le aree wilderness, le riserve integrali e i parchi nazionali e abbiamo ottenuto queste percentuali: le aree strettamente protette in modo letterale sono quelli Ia e Ib che in Italia non superano lo 0,35% del territorio. Se prendiamo anche tutti i parchi nazionali superiamo di 10 volte questo fattore, ma se inseriamo i parchi regionali che non abbiamo considerato nel database mondiali siamo bene al di sopra. È difficile avere una stima ma probabilmente siamo vicini se prendiamo in considerazione anche tutti i parchi regionali. Ma, come abbiamo detto, alcuni parchi nazionali non sono esattamente corrispondenti alla definizione della categoria che prevederebbe la preservazione dei processi naturali, la non gestione. Avere un dato reale è difficile. Trovare queste aree dovrebbe essere uno degli obiettivi strategici di questi anni, in cui per fare una pianificazione, o conservation planning, fatta bene dovremmo decidere il posizionamento esatto di questo 10%: un po’ sulle Alpi, un po’ sulle isole, un po’ nella penisola, un po’ in pianura o in montagna o collina. Su questo stiamo facendo ricerca nell’ambito del Centro Nazionale Biodiversità del PNRR e cercheremo di dare degli strumenti conoscitivi.

Un commento su due aspetti particolarmente critici: la barriera corallina e lo stato dei ghiacciai.
Io non sono pessimista per la biodiversità. Finché questo pianeta riceverà l’energia solare e continuerà a ruotare intorno alla nostra stella la natura continuerà a fiorire e la biodiversità tornerà ad esserci dopo di noi. Ovviamente noi saremo estinti, magari da un milione di anni, perché l’uomo come tutte le specie avrà un proprio ciclo evolutivo e poi andrà a scomparire. Quello che cerco di dire io è che serve preservarlo adesso, per noi esseri umani, per vivere un pianeta che sia quanto più ricco e diversificato possibile. I giovani che temono di essere l’ultima generazione per fare qualcosa significano che questa è l’ultima possibilità data di fare scelte che consentano di lasciare ai nostri figli un mondo in cui esistano ancora la tigre, la barriera corallina, la foresta pluviale, e così via. È importante avere due strategie: una è quella di gestire meglio gli ecosistemi in cui noi dobbiamo interagire, quello che si chiama landsharing, ossia condivisione. Qui agricoltura e urbanistica convivono nel miglior modo possibile con il mantenimento della maggiore biodiversità. La seconda strategia è il landsparing, che consiste nel lasciare una parte di territorio ai processi naturali. Si è discusso su quale sia tra l’uno e l’altro il più conveniente, ma in realtà servono tutti e due. Con il landsharing faccio pascolo, faccio gestione forestale. Con il landsparing posso lasciare delle arche di Noè di aree protette in modo integrale.

Vuole aggiungere qualcosa alla nostra conversazione?
Vorrei sottolineare la peculiarità della Riserva Naturale Integrale Sasso Fratino, una vera arca della biodiversità. Il personaggio chiave è Fabio Clauser, un uomo che fu mandato dal Ministero Agricoltura e Foreste a gestire una foresta che era proprietà dello Stato. Siamo alla fine degli anni ‘50 e l’ottica era quella di considerare la foresta nella sua sfera produttiva. Questo signore, capì il valore di quel lembo di foresta, e decise di non tagliarla, ma istituì con un atto dell’azienda la prima riserva integrale. Non c’era una legge dello Stato che lo prevedesse, però lui istituì una riserva integrale con un atto dell’azienda, sostanzialmente disubbidendo al suo mandato di estrarre il legname. Questo suo atto e questa sua visione di questo bosco così bello e così maturo ha fatto sì che sia protetto e salvaguardato ed oggi è riconosciuto come patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Una visione che all’epoca era in controtendenza rispetto alla politica di gestione di quel territorio, ma che oggi è un vero tesoro, con un valore anche economico. Clauser aveva visto in anticipo qualcosa che poi si è rivelata come lui la vedeva solo dopo alcune decenni. Qui mi piace citarlo, perché questo signore è ancora vivente e ha 105 anni.

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