Ecologia, Ambiente, Ambientalismo

Non solo contrasto al cambiamento climatico. Salvare la biodiversità è dovere etico e politico. Intervista ad Alessandro Chiarucci (1a parte)

Non solo contrasto al cambiamento climatico. Salvare la biodiversità è dovere etico e politico.
Intervista ad Alessandro Chiarucci (1a parte)
di Stefano Mari

Il professor Alessandro Chiarucci è ordinario di Botanica ambientale ed applicata all’Università di Bologna, dove ha diretto il Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali, e si occupa da tempo di biodiversità, essenzialmente vegetale, ma non solo. È autore del recente saggio Le arche della biodiversità, edito da Hoepli nello scorso aprile, che reca il sottotitolo Salvare un po’ di natura per il futuro dell’uomo. Mi riceve per l’intervista nella Palazzina Bentivoglio dell’Orto Botanico, di cui è stato direttore. All’entrata campeggia un vetusto Ginko biloba, ed è proprio qui che comincia la nostra conversazione.

Nel suo libro racconta una storia molto bella sulla unicità di Ginkgo biloba. La può riprendere per i nostri lettori?
Il Ginko, il cui nome scientifico è Ginkgo biloba, è l’unica specie vivente nel suo ramo evolutivo. La tassonomia organizza la vita in specie, generi, famiglie e così via. Questo albero appartiene a una specie caratteristica perché rappresenta un ramo sostanzialmente monopodiale, ossia formato da un’unica specie, un unico genere, un’unica famiglia, un unico ordine, un’unica classe, un’unica divisione e quindi rappresenta un’unicità che ha perso tanti rami nella storia evolutiva. Un’altra caratteristica di questa pianta è che fino a poco tempo la si conosceva solo allo stato coltivato, in quanto utilizzata nell’estremo Oriente e in Cina come albero ornamentale. Non se ne conosceva la distribuzione in natura fino a che nei primi anni 2000 un gruppo di ricercatori cinesi e giapponesi lo ha individuato in natura in una zona remota del sud della Cina. Fino ad allora si riteneva che la specie fosse estinta in natura e sopravvivesse solo allo stato coltivato grazie al suo valore ornamentale.
Quando si studia la biodiversità, una delle caratteristiche fondamentali consiste nel verificare se è naturalmente presente in un luogo perché ci è arrivata da sola durante la sua storia evolutiva oppure no. Pertanto, il Ginko può essere considerato oggi presente naturalmente soltanto nel sud della Cina, mentre quelli che vediamo da noi sono sempre piante coltivate per i servizi che offrono, l’ombreggiamento, la gradevolezza della chioma, il beneficio estetico.

Nel libro vengono citate, quasi in contrasto, le fortune evolutive dei Coleotteri che si sono sviluppati in oltre 350.000 specie diverse, rivelandosi capaci di adattarsi a qualsiasi contesto.
Si tratta di un gruppo tassonomico di grande successo evolutivo. Una delle regole di natura è che pochi gruppi tassonomici sono molto abbondanti, come i coleotteri, mentre molti altri sono poco abbondanti. Hanno cioè avuto meno fortuna nel radicarsi e nel colonizzare differenti ecosistemi. I Coleotteri sono un gruppo di insetti che ha radiato tantissimo, colonizzando praticamente gran parte degli ecosistemi producendo una straordinaria quantità di specie.

La parola specie racchiude quindi situazioni molto diverse. Da un lato non le conosciamo ancora tutte, anzi ne mancano probabilmente parecchi milioni per completarne l’elenco, però dall’altro lato sappiamo anche che si vanno purtroppo estinguendo. A questo proposito nel libro racconta le due tristissime storie del Dodo dell’isola di Mauritius e dei Moa della Nuova Zelanda.
Uno dei problemi ancora molto aperti riguarda la conoscenza del numero di specie diverse che vivono su questo pianeta. Sappiamo che ne abbiamo catalogate poco più di due milioni e questo può essere un livello di conoscenza alto o basso a seconda di quante sono quelle che mancano al censimento. Utilizziamo vari approcci, vari modelli: ad esempio il tasso di descrizione di specie nuove, con cui delineiamo delle tendenze. A seconda di chi fa questi modelli il numero di specie che mancano all’appello varia da un milione e mezzo, per un totale di tre milioni e mezzo, fino a 30 milioni. La stima maggiormente condivisa oggi tra gli scienziati dice che sul pianeta sono presenti circa nove milioni di specie. Nella storia del pianeta le specie si sono sempre estinte per formare nuove specie. Il formarsi di nuove specie è sempre andato parallelamente con l’estinguersi di altre, basti pensare ai dinosauri. Tutti sappiamo che i dinosauri ci sono stati e che oggi non ci sono più. Si tratta di molte centinaia di specie diverse, circa un migliaio sono state catalogate dai paleontologi, e tutte si sono estinte per motivi naturali. Il problema attuale è che l’uomo con le proprie attività, la propria capacità di sfruttare gli ecosistemi, di cacciare, di pescare, di trasformare gli habitat, sta causando l’estinzione di un numero molto maggiore di specie.
Tra le specie estinte per causa umana, basta pensare al Dodo e ai Moa, che si sono estinti in una fase storica precedente a quella attuale, in cui ancora non distruggevamo interi ecosistemi con ruspe o mezzi meccanici, ma solo a causa della caccia. Queste specie si sono estinte in sistemi insulari dove i limiti fisici di spazio sono evidenti e l’estinzione delle specie può avvenire in breve tempo. Nel ventunesimo secolo il tasso di estinzione è molto maggiore, la nostra capacità di distruggere gli ecosistemi e conseguentemente di causare l’estinzione delle specie è molto maggiore di quello che abbiamo visto nel caso del Dodo e dei di Moa. Il tasso delle specie che sappiamo estinguersi negli ultimi decenni è maggiore di qualsiasi trend naturale.

Sembra quasi che l’uomo, le genti, abbiano dimenticato le lezioni o le indicazioni della mitologia babilonese di Gilgamesh e della mitologia ebraica dell’arca di Noè, ovverosia il mandato ad alcuni personaggi eletti di salvare le specie. Questo imperativo è come scomparso. Non c’è questa coscienza forte nel nell’umanità.
Non so quanto fosse cosciente la società di 2.000 anni fa circa l’importanza della biodiversità e la necessità di metterla in sicurezza. Verosimilmente in alcune menti elette c’era comprensione del valore della biodiversità anche per legame più diretto con la natura. Quello che avviene oggi è che la nostra vita di cittadini urbanizzati ci allontana dalla natura e quindi ci rende più distanti da essa. C’è forse un eccesso di fiducia nella tecnologia, in qualche macchinario che in assenza di foreste possa assorbire la CO2. So per certo che dopo l’uomo ci sarà una nuova biodiversità. Noi potremmo estinguerla, potremmo danneggiare l’ecosistema, ma questo tornerà a fiorire nella storia del pianeta, fuori dalla nostra scala. Per questo dico salvare le diversità oggi serve a noi, non serve al pianeta. Se noi perdiamo questa biodiversità oggi, si riformerà fra un milione di anni o 10 milioni di anni, con caratteristiche diverse, ma noi vivremo un pianeta più povero.

Un esempio nel suo libro di totale distruzione di una biodiversità preesistente è quello dell’isola di Pasqua. È interessante la metafora tra il nostro pianeta e l’isola.
L’isola di Pasqua è paradigmatica di un piccolo sistema abitato da una società tutto sommato sviluppata che tende a sovra sfruttare il sistema in cui vive fino a portarlo al collasso, alla catastrofe, con un prezzo altissimo per l’intera società. L’isola è piccola, le risorse son poche. Il messaggio è comprensibile: se un sistema piccolo e isolato viene sovrasfruttato, questo collassa. Il mondo non è un’isola, la terra non è un’isola ma è l’intero mondo. Oggi però l’uomo l’ha reso più piccolo. Abbiamo reso le diverse parti del pianeta più connesse, rendendole più vicine, trasformandolo in una sorta di grande isola. Da qui il paragone tra il sovrasfruttamento dell’isola di Pasqua e dell’intero pianeta, che rende facilmente comprensibili le possibili conseguenze di una società globalizzata che sfrutta l’intero ecosistema terrestre.

Il libro è estremamente leggibile anche per queste storie che racconta, ma al tempo stesso introduce nell’analisi scientifica alcuni concetti filosofici profondi, quali etica, estetica e utilitarismo.
Il mondo in cui noi viviamo è fatto così per una serie di vicende che si sono dispiegate attraverso milioni di anni. Se non ci fossero le piante non ci sarebbe ossigeno, se non ci fossero state le foreste antiche del carbonifero non avremmo il petrolio e non avremmo l’energia che da questo otteniamo. Il nostro stile di vita attuale dipende molto dalla storia di questo pianeta. Non siamo molto consci di quanto la storia planetaria influenzi il nostro modello di vita attuale, eppure anche le scarpe da ginnastica dei nostri studenti hanno origine da composti organici sedimentati dalla decomposizione di una foresta che era lì qualche milione di anni fa. Oggi invece si è diffuso l’utilitarismo, ossia dare un valore agli ecosistemi in natura in rapporto al servizio ecosistemico che forniscono. Riceviamo acqua pulita perché in montagna c’è una foresta e questa foresta permette all’invaso di avere acqua migliore. Io in città beneficio di quel servizio che la foresta mi fornisce. L’acquedotto di New York vive grazie al mantenimento di un’area naturale soprastante, come la diga di Ridracoli in Romagna, a valle del Parco delle Foreste Casentinesi e soprattutto della riserva integrale di Sasso Fratino, beneficia del loro servizio ecosistemico. C’è un valore utilitaristico nella natura, come le api che impollinano i frutteti della Romagna. Gli insetti non sono forniti da noi ma dalla natura e ci fanno un servizio perché ogni fiore impollinato diventa un frutto. È un servizio chiaro e ben presente nelle politiche europee. Anche il servizio estetico è codificato come un valore, così come nella definizione dei servizi ecosistemici c’è una voce che parla di servizi spirituali e religiosi.
Un albergo sulle Dolomiti rende di più di uno costruito su un’area industriale perché lì ottieni un beneficio spirituale dovuto alla gradevolezza del paesaggio, al benessere della foresta o della prateria in cui cammini. Come cittadino sei portato a pagare per questi servizi, che sono codificati e anche quantificabili, tant’è che molto spesso preservare il paesaggio è diventato un imperativo dei piani regolatori. Manca ancora qualche elemento, cioè il saper apprezzare questa natura: l’elemento estetico è spesso basato sul paesaggio, ma apprezzare il valore estetico di un suolo profondo e pieno di pedofauna o di una comunità di impollinatori di una prateria alpina è più difficile per il cittadino medio.
Conoscere significa amare, amare significa proteggere. Per quanto riguarda il valore etico, esso si basa come per il Colosseo sulla considerazione che quel bene abbia un valore per la nostra storia e che si debba tramandarlo alle generazioni future. Una foto o un modellino non sarebbero uguali dal punto di vista dell’etica, e anche dell’empatia. Ci siamo evoluti in un pianeta che aveva una biodiversità propria a cui dovremmo dare un valore perché è parte della nostra storia biologica. È una natura che ormai dominiamo ma alla quale apparteniamo e alla quale possiamo riconoscere un diritto all’esistenza.

L’altro grande tema è il cambiamento climatico, cui accenna, ma che chiaramente non è l’elemento centrale della sua trattazione. Ci sono però aspetti della lotta al cambiamento climatico che contrastano con l’aspetto della lotta per la conservazione. Facciamo un esempio: un’amministrazione decide di costruire un edificio che sia carbon neutral e che quindi abbia un impatto near zero su un territorio in cui ci sono degli alberi. Questi alberi dovranno essere sacrificati perché dal punto di vista della neutralità carbonica sono meno efficaci di quello che il nuovo edificio invece potrà dare.
Credo che sul cambiamento climatico ci sia stata già molta trattativa e in pochi anni si è sviluppata una discreta consapevolezza, sia politica che societaria, mentre sull’aspetto biodiversità, la cui erosione e perdita sono basate sulle stesse cause del nostro sviluppo impetuoso, ce n’è molta meno. I due temi sono chiaramente collegati, derivano esattamente dalla stessa causa: il super sfruttamento delle risorse. La biodiversità è meno nota. Secondo dati recenti sembra che gli italiani conoscano il cambiamento climatico in ragione del 75%, mentre quelli consci della biodiversità siano inferiori al 20%. È un tema ancora acerbo nella società e spesso ci possono essere dei conflitti. Nell’esempio che lei faceva va detto che in realtà non basta avere gli alberi per avere una foresta. Molto spesso si fa questa confusione ma una foresta che è lì da sempre, a prescindere dal carbonio che contiene, ha un valore per la diversità sterminata che ospita rispetto a degli alberi che noi possiamo piantare e che potranno diventare una foresta ma fuori dal nostro arco temporale. Piantare alberi è diventato un mantra politico di quasi tutte le amministrazioni e di quasi tutti gli organi di governo locali e nazionali e ha senso specialmente negli ambienti urbani. Il primo beneficio è proprio quel servizio di migliorare l’atmosfera, il clima urbano, la piacevolezza nelle nostre strade. Preservare gli spazi dove la natura è rimasta intatta è un valore non ancora così radicato ma è molto più urgente, perché una volta manipolata non sarà più facile ripristinarla negli archi di tempo breve.

Gli avversari della lotta al cambiamento climatico sono le multinazionali legate ai combustibili fossili, mentre gli avversari della lotta per la conservazione della biodiversità mi sembra che possano essere trovati in campo agricolo. L’esempio classico è quello della foresta amazzonica, il cui diboscamento va avanti a ritmi vertiginosi.
In Amazzonia gran parte della deforestazione serve a produrre carne, che necessita di molta superficie rispetto all’alimentazione vegetariana ed ha anche il problema di essere uno dei principali fattori di inquinamento per la reimmissione dei gas serra. La produzione del cibo produce circa il 35% dei gas climalteranti e circa il 60% di questi deriva dalla filiera produttiva della carne. Una quantità davvero enorme, che deriva dal modello alimentare moderno, anche se comparato con altre sorgenti di emissioni di gas climalteranti come quelli derivati dai trasporti. Si dovrebbe passare a un’alimentazione che sia basata sul minor consumo di terra, magari con una agricoltura più moderna che riesca a estrarre più proteine e più calorie dalla unità di superficie che non un’agricoltura sparsa.
Oltretutto quella che si usa in Amazzonia spesso dura pochi anni, la deforestazione consente il pascolo gli animali per pochi anni e poi il suolo diventa impoverito e non più efficiente. Non si tratta di sottrarre terreno all’agricoltura, se serve a nutrire gli esseri umani; si tratta, invece, di impostare politiche alimentari più efficienti, capaci di utilizzare meno spazio e usare più alimenti di origine vegetale. Questo permetterebbe di lasciare un po’ di spazio alla biodiversità. Nel libro ho citato Edward O. Wilson che, nel suo ultimo libro “Metà della Terra”, propone un nuovo patto tra uomo e natura in cui il 50 % della superficie sia utilizzato per le necessità della nostra specie e l’altro 50% sia lasciato alle esigenze di tutte le altre specie. In questo secondo 50% una parte importante può e deve essere in qualche modo gestita. La mia proposta consiste nel lasciare almeno un 10% della superficie del tutto intoccato. Un decimo del pianeta, distribuito ovviamente nei vari ecosistemi, in cui non fare nulla e lasciare la natura libera di fare il proprio corso, come delle vere e proprie arche in cui la biodiversità possa continuare a vivere in modo indisturbato da noi.

Nel suo libro esprime una certa fiducia nella possibilità di una forma di agricoltura innovativa che possa sfamare 8 miliardi di persone con un impatto ecologico che vada tendenzialmente abbassandosi.
Non sono un esperto di agricoltura, ma vedo i progressi che si stanno facendo in tema di sviluppo di nuove tecniche agrarie, dai trattamenti per le piante localizzati su una microsuperficie in base al riconoscimento di immagine, all’uso di tecnologie, all’utilizzo di composti meno impattanti. Non ho un approccio ideologico che dica no agli OGM, no ai pesticidi, no ai fertilizzanti chimici. Quello che credo è che occorra sensibilizzare le politiche agricole perché ci sia il miglior compromesso tra costi ambientali, naturali, sociali e capacità di produrre, una mente collettiva aperta che metta sui due piatti della bilancia una nuova tecnica, un nuovo organismo, un nuovo fertilizzante e ne valuti complessivamente ciò che può portare come beneficio alla collettività e ciò che comporta come rischio per l’ambiente.

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