Riflessioni nel tempo del Coronavirus
di Serge Latouche
La situazione “senza precedenti” in cui il coronavirus ha fatto precipitare il mondo è oggetto di un dibattito che si sta ampiamente sviluppando per le implicazioni di ordine sanitario, economico, politico, sociale, etico, e non solo. Volentieri pubblichiamo l’intervento su un argomento, di così viva e drammatica attualità, di Serge Latouche (professore emerito di economia della Université d’Orsay e “obiettore della crescita”) per la rivista francese “La Décroissance» che l’autore ci ha inviato per «Grifone» del che lo ringraziamo. La attuale pandemia ci porterà verso la decrescita? Questa domanda si è diffusa nel dibattito pubblico nelle ultime settimane. Latouche, qualche settimana fa ha rilasciato una intervista per il “Corriere della Sera” e alla domanda conclusiva “Passeremo dalla decrescita felice alla decrescita tragica? così ha risposto: “La decrescita non è una crescita negativa, su questo c’è un malinteso. Quest’anno registreremo di sicuro una crescita negativa, ma da tempo abbiamo un segno più ai minimi termini, lo zero virgola… E non sarà così terribile perché tra i settori più colpiti c’è il turismo e senza turismo possiamo sopravvivere. Saremo infelici? Può essere! Ma l’infelicità forse è compatibile con la gioia di vivere se felicità significa solo un Pil più elevato”. In questo articolo di Latouche il panorama delle riflessioni suscitate dalla pandemia si dilata ponendo interrogativi che magari abbiamo rimosso, ma che richiedono risposte adeguate e scelte radicali nella vita di ognuno di noi. Nella hall di una comunità per il recupero sociale si legge questa frase “se da una sconfitta non hai imparato nulla, allora ne meriti un’altra”. Indubbiamente un suggerimento su cui meditare!
(Nota, traduzione e adattamento di Alfredo Petralia)
La crisi in atto
Con la diffusione del coronavirus, o della pandemia, le richieste di mie interviste si sono moltiplicate principalmente da giornalisti italiani e francesi, ma non solo, sulla base del fatto che la decrescita dovesse necessariamente essere conseguenza del fenomeno. Per alcuni, la situazione attuale corrisponderebbe alle previsioni degli “obiettori di crescita”, o addirittura, costituirebbe l’inizio della realizzazione del loro progetto; per altri, invece, questa crisi sarebbe un’eccezionale opportunità da cogliere per cambiare il sistema. Le principali misure messe in atto dai governi per contenere l’epidemia sembrano aver avuto ripercussioni “positive”. Le emissioni di gas serra sono diminuite drasticamente, soprattutto in Cina: l’aria sta tornando a essere trasparente e la gente di Pechino sta di nuovo vedendo l’azzurro del cielo; l’inquinamento di tutti i tipi sta diminuendo; sentiamo il canto degli uccelli in città; si dice che i delfini siano tornati nei canali di Venezia liberi dall’andirivieni dei vaporetti e dei turisti. D’altra parte, L le persone sono costrette a rendersi conto che possono sopravvivere senza consumare tanto. Apprendono la frugalità e si rendono conto che ci sono molte cose che possono fare senza necessariamente stare peggio: non dovremmo vedere in ciò “una possibilità di decondizionamento”, e quindi di riapprendimento, di compassione per l’altro, di attenzione ai vivi, di “decrescita forzata” anziché scelta? Poiché la temporalità della riflessione teorica e filosofica non è quella dei media, inizialmente rimasi a corto di argomenti, limitandomi a sottolineare la mia incompetenza sugli aspetti tecnici del problema epidemiologico pensando che, passata presto la crisi attuale, saremmo tornati alle pratiche precedenti la crisi del 2008, con una relativa rilocalizzazione della produzione farmaceutica grazie agli interventi statali ad hoc in deroga ai sacrosanti principi di competitività e libero scambio. Con il tempo e il senno di poi necessari per la riflessione, sembra che questa crisi, per la sua specificità e ampiezza, sia un indicatore particolarmente forte delle patologie della nostra società della crescita, produttivistica e consumistica. Per prima cosa c’è da riflettere sul paradosso del “senza precedenti” riferito dell’evento prima di vedere cosa rivela, quali saranno le conseguenze e quali lezioni potranno essere apprese.
Crisi senza precedenti?
I media, che ne sono in gran parte la causa, riecheggiano instancabilmente il lato eccezionale di ciò che stiamo vivendo. Ma cos’è che non ha precedenti? Certamente non l’inizio di una pandemia, o addirittura la sua gravità. Gli storici hanno documentato il verificarsi ricorrente di pandemie dal Neolitico, alcune delle quali molto più gravi di quella attuale, come la peste nera del XIV secolo, che si dice abbia sterminato un terzo della popolazione europea: in genere attribuiscono il fenomeno ai cambiamenti nelle relazioni tra gli umani e l’ambiente “selvaggio”, in termini di origine dei virus e a causa di scambi e movimenti di popolazioni che ne favoriscono la diffusione. Più recentemente, alcuni hanno persino messo in evidenza legami con i cambiamenti climatici di origine geologica e talvolta anche antropogenica, già nell’antichità, o nel XVI secolo in America Latina. Ciò che è senza precedenti, sicuramente, è l’estensione delle misure di contenimento adottate da un gran numero di paesi e che colpiscono al momento in cui scrivo oltre tre miliardi di persone, e in misura minore la velocità effettiva o immaginata di propagazione dell’evento. Se il virus non è fatale nella maggior parte dei casi, la sua contagiosità è molto elevata e i disturbi che provoca portano scompiglio in strutture sanitarie non preparate, nonostante la prevedibilità dell’emergere di patologie di questo tipo. L’attività umana è quasi sospesa pressoché sull’intero pianeta. Eppure, fino a un certo punto, coloro che all’inizio hanno sottolineato la natura relativamente benigna, se non banale del caso, non avevano del tutto torto. Infine si è descritta la realtà, cioè che per il momento non è la fine del mondo, come mostrano i dati annunciati sulle morti. Le statistiche sui morti e sulle persone colpite descritte dai media come le vittime di una guerra, contribuiscono a creare una psicosi apocalittica. Bisogna ricordare che l’influenza ordinaria uccide ancora più di 150 persone ogni giorno in Francia per diversi mesi, per non parlare degli incidenti stradali che uccidono circa 1,3 milioni di persone in tutto il mondo ogni anno: nessuno ci pensa tanto da proibire qualsiasi movimento. Va anche considerato che altre pandemie, più o meno recenti, hanno avuto un impatto reale maggiore. Il giornalista Daniel Schneidermann, nella sua rubrica su Liberation del 23 marzo scorso, ha sottolineato che l’influenza di Hong Kong, che imperversò dall’estate 1968 all’inverno 1969/70 uccise 40.000 persone in Francia e un milione nel mondo, e passò quasi inosservata. Ciò ci ricorda il ruolo dei media e la valenza politica dell’attuale pandemia.
Salute a tutti i costi
Il crescente rifiuto della morte che si è manifestato nella illusione di zero morti di guerra durante gli interventi americani in Iraq, si riflette nella complicità implicita tra potere medico, potere del governo e opinione pubblica. L’autorità del settore medico-scientifico amplificata dai media, acclamata dall’opinione pubblica nonostante le contraddizioni e la confusione dei suoi comunicatori, si è trasformata in una vera forza vincolante per i capi di stato: i ripetuti cambiamenti di linea di Donald Trump e Boris Johnson sono particolarmente rivelatori – e allo stesso tempo, servono da garanzia contro gli eccessi dittatoriali di cui l’Ungheria di Orbán o la Turchia di Erdogan sono gli esempi più flagranti -. Alcune autorità sanitarie hanno addirittura indotto i decisori ad esagerare sulle misure più restrittive e repressive a scapito delle libertà. È abbastanza notevole che ci sia stata una deriva dall’economia a tutti i costi della società della crescita alla salute a tutti i costi della prima modernità dopo le guerre di religione. In altre parole, tra i due poli complementari e antagonisti della modernità, il “mercato azionario” – ben rappresentato da un lato da John Locke per il quale il contratto sociale mira all’arricchimento in uno stato di diritto e dall’altro della “vita” secondo la visione di Thomas Hobbes per il quale dobbiamo rinunciare a tutti i diritti naturali a favore di un garante tutelare del Leviatano della sopravvivenza e della sicurezza – il cursore si è spostato nella direzione del secondo termine: sfuggire alla morte, qualunque sia il prezzo da pagare in termini di rinuncia alle libertà, e anche se l’economia deve essere sacrificata in qualche modo.
Prevenire la patologia sociale
Innanzi tutto la crisi rivela la straordinaria fragilità delle nostre società. Gli ambientalisti hanno da tempo dimostrato che la società della crescita si schianterà contro il muro dei limiti ecologici del pianeta Terra. Più la società della crescita sviluppa il suo potere tecnico, più aumenta la sua fragilità. L’eruzione di un vulcano islandese alcuni anni fa lo aveva già dimostrato allo stesso modo dei blackout generali ricorrenti, degli tsunami e di altri disastri naturali. Più l’interconnessione e l’interdipendenza tra uomini e nazioni aumentano a causa della logica economica e tecnica, più diminuisce la resilienza. Lo stiamo vedendo chiaramente con la carenza di prodotti farmaceutici. In Italia, come in Francia, in particolare il trionfo delle politiche neoliberiste e politiche dell’austerità hanno in gran parte smantellato lo stato sociale e i sistemi sanitari costruiti dopo la seconda guerra mondiale, a favore di un abbandono al settore privato e alla logica della redditività. Di conseguenza, abbiamo dovuto affrontare questa pandemia con personale medico, scorte di dispositivi di protezione, attrezzature e letti insufficienti negli ospedali e con una carenza di medicinali essenziali. C’è qualcosa di patetico nella corsa globale per le mascherine protettive, la cui produzione non richiede materiali speciali né alta tecnologia. Tuttavia, qualunque sia lo scandalo proprio delle politiche perseguite e la sordità delle autorità pubbliche di fronte ai segnali di allarme, non dovremmo essere accecati dalla controproduttività della medicina moderna. Ciò, come ha analizzato Ivan Illich, è spesso iatrogeno e costituisce una voragine finanziaria; provoca malattie nosocomiali e l’abbassamento delle barriere immunitarie sotto l’effetto dell’abuso di droghe, ecc. La crisi dello stato sociale ha anche basi molto reali che, senza scuse, aiutano a spiegare la controrivoluzione neoliberista di Margaret Thatcher e Donald Reagan. Il fatto è che la spesa sanitaria, nella logica della medicina avanzata tende a diventare esponenziale e incontrollabile, per non parlare dello scandalo dei prezzi praticato dalle aziende farmaceutiche. La salute per tutti nel contesto di una società della crescita, che attualmente è quasi nulla, sta diventando un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Una patologia sociale dovrebbe essere prevenuta piuttosto che curarne i suoi effetti sempre crescenti sulla salute dei cittadini. Sarebbe più efficace correggere radicalmente gli effetti negativi della società della crescita piuttosto che con una fuga in avanti della tecnica. Il programma della decrescita raccomanda giustamente un riorientamento della ricerca scientifica in particolare in campo medico e lo sviluppo di una “medicina dolce” e ambientale di prossimità.
Il trionfo del virtuale
A livello umano e relazionale, uno degli effetti più inquietanti su cui dovremmo riflettere è il fatto che la socialità elementare e fondamentale. come salutarsi con una stretta di mano o baciandosi, è soppressa a favore di un trionfo del virtuale. In passato, la gestione delle pandemie portava alla quarantena, mai però alla scomparsa dal vero incontro dell’altro. La viralità, non solo epidemica, ma anche elettronica, economica e finanziaria, terroristica, ecc., accelerata dalla globalizzazione, promuove il trionfo del virtuale sul reale come il sociologo Jean Baudrillard aveva ben visto ai suoi tempi. Questo trionfo del virtuale è notevolmente rafforzato dal ruolo che il digitale sta occupando nella nostra vita confinata. Pertanto, le giustificate preoccupazioni sui pericoli fisici e psicologici dell’esposizione prolungata dei bambini agli schermi dei computer, sono spazzate via dalla necessità di assicurare l’istruzione scolastica. Per non parlare della necessità di intrattenere le famiglie accalcate e confinate in spazi ristretti. Le quote del mercato digitale (a beneficio delle vendite online della distribuzione di massa, telelavoro, le consultazioni mediche su Internet, ecc., ma a scapito dell’economia reale, sia che si tratti delle librerie di fronte casa, che di Amazon oppure di negozi e mercati locali) stanno aumentando in modo largamente irreversibile. Almeno su questo punto nulla sarà più come prima. Stiamo assistendo a quella che James Lovelock ha definito “la vendetta di Gaïa”. Abbiamo dichiarato guerra alla natura con la modernità invece di vivere al suo interno in armonia con essa. Essa reagisce per difendersi mentre noi invece di indietreggiare lanciamo una nuova offensiva. Questo atteggiamento “guerriero” (molto pronunciato nei discorsi del presidente Macron) è detestabile e controproducente. Non uccidiamo un virus che fa parte dei viventi, negoziamo con esso e ci riusciamo al meglio. Sembra, se vogliamo credere agli esperti di virologia, che il coronavirus provenga da pipistrelli come molti altri virus e che sia passato direttamente all’uomo (i cinesi li consumano nella farmacopea tradizionale) o indirettamente attraverso altre specie selvatiche (consumate degli stessi cinesi come il pangolino). L’agricoltura produttivistica fa parte della guerra contro la natura e riflette il comportamento predatore e non quello di un buon giardiniere come nella permacultura e nell’agricoltura dei contadini tradizionali: contribuisce alla deforestazione, ai metodi di allevamento intensivo senza rispetto per gli animali, al commercio di animali selvatici che favorisce il superamento delle barriere tra le specie, la mutazione dei virus e il passaggio da animali ad animali e infine all’uomo. Influenza aviaria, peste suina, AIDS, SARS sono esempi. Nel caso dell’attuale pandemia, potrebbe essere meno ovvio, o in ogni caso meno diretto, ma il collegamento è probabile. D’altra parte, sembra che la saturazione dell’aria con particelle fini sia a Wuhan che in Lombardia sia stata un fattore aggravante, mentre la globalizzazione ha favorito una diffusione senza precedenti.
Un disastro pedagogico?
Quali lezioni impareremo da questa crisi? Niente sarà più come prima, dicono tutte le autorevoli voci politiche, intellettuali e perfino economiche. Vogliamo crederlo ancora. La ragione ci comanda di cambiare rotta, ovviamente. Tuttavia, vedremo i prolegomeni della società dell’abbondanza frugale che desideriamo mettere in atto per evitare un crollo irreversibile o addirittura la scomparsa dell’umanità? Certo, insieme a quanto alcuni descrivono come una decrescita forzata, costatiamo – ma l’abbiamo anche visto con il movimento di gilets gialli – emergono ondate di solidarietà, una certa creatività e persino forme di convivialità, virtuali per forza di cose, … ma tutto ciò sarà sufficiente per realizzare il cambiamento necessario? Sono previsti alcuni piccoli cambiamenti. Ci sarà una piccola dose di protezionismo con una certa ricollocazione delle compagnie farmaceutiche, una modifica delle regole del funzionamento monetario in Europa, persino un relativo ritorno dell’interventismo statale. Tuttavia, la rinuncia alle politiche neoliberali (da accogliere favorevolmente) sarà probabilmente solo temporanea e la necessaria “metanoia”, cioè la trasformazione dei fondamenti delle nostre società, resta ancora da realizzare. Il breve termine che domina le politiche governative continuerà probabilmente a prevalere. La rinuncia alla religione dell’economia della crescita non è ancora all’ordine del giorno. È improbabile che la pandemia sia sufficiente per superare l’inerzia di un sistema che combina gli interessi del potente e la complicità passiva delle sue vittime. Una volta che l’allerta sarà passato, rischiamo di tornare alle normali attività come dopo la crisi economica e finanziaria del 2008. Siamo sempre nella logica della competitività e della concorrenza. Lo shock dovrebbe essere davvero più forte. E se ci fosse un crollo dell’economia mondiale? Non è impossibile, ma è improbabile. I governi hanno imparato una serie di lezioni. Sono in grado di intervenire nei mercati. Ovviamente, ci sono dei limiti, ma penso che nel contesto attuale, il sistema sia ancora in grado di affrontare una recessione, a condizione che non si trasformi in depressione, perché in quel caso nulla sarebbe sotto controllo. Anche gli aspetti ecologici positivi saranno spazzati via. Ricordiamo che al momento della caduta dell’URSS, che fu un disastro economico e sociale, anche le emissioni di CO2 erano diminuite considerevolmente. Nel caso della Cina, c’è un grave declino, ma stanno già pianificando di recuperare terreno. “L’an 01”, la famosa utopia degli anni ‘70 creata dal vignettista Charlie Hebdo Gébé, nella quale si immaginava l’inizio della sospensione di gran parte delle attività umane, non è ancora in vista questa volta. Manteniamone tuttavia viva la nostalgia per alimentare la speranza del necessario cambiamento radicale proposto dal progetto della decrescita.